4 chiacchiere con Colombo

Joe Colombo si presenta prima del concerto di giovedì 24 marzo all’etnoblog!

Volevo sapere com’è nata questa cosa del blues che alle vostre latitudini – e tutto
sommato anche alle nostre – è abbastanza inusuale, e soprattutto questa cosa del dobro.

Beh, ho incominciato a suonare verso i dodic’anni la chitarra elettrica tradizionale, diciamo.
Al dobro mi sono avvicinato solo otto – nove anni più tardi: per questo la mia tecnica
comunque è un po’ un ibrido, non son proprio un purista del dobro. Ho cercato di creare un
po’ la miscela di quello che era il suonare prima con la chitarra elettrica abbinato poi a
quello che erano le accordature aperte, lo slide, del dobro in particolare. E per quello che
riguarda il blues, anche qua l’ho scoperto . . . un po’ la discografia dei miei genitori, cresci uti
negli anni sessanta; quindi il blues cominciò ad essere un po’ importato grazie ai Rolling
Stones, Clapton, Hendrix e poi, più tardi, sono andato a scoprire le origini della musica
americana, che è quella che prediligo, insomma, e che è molto legata allo slide e allo
strumento del dobro in particolare.

Ma, tornando al dobro, c’è qualche musicista che ti ha influenzato in maniera
particolare?

Proprio legato al dobro? Inizialmente Johnny Winter, che lo utilizzava acustico, però usava
le sonorità slide con la chitarra elettrica e con le accordature aperte. In un secondo tempo,
durante un viaggio negli Stati Uniti, ho conosciuto Eric Sardinas, che invece mi ha dato un
po’ l’idea di unire le due cose, no, del dobro amplificato. Lui non era ancora conosciuto qui
da noi, non era mai venuto in Europa; io ho scoperto a Los Angeles. Andavo sempre a
sentirlo suonare nei club e ho un po’ rubato questa idea: trovavo che si abbinava bene a
quello che era stato il mio percorso.

Adesso io non so se è una nostra impressione e ci sbagliamo, ma la Svizzera sembra un
po’ al di fuori di quelli che sono i normali circuiti rock.

Mah, più che altro la Svizzera è un paese particolare, suddiviso in queste tre regioni
linguistiche, che rimangono molto separate tra loro, malgrado si tratti di un paese solo:
abbiamo la parte tedesca, quella francese e quella italiana. Quindi è un paese dove le cose si
sviluppano in un modo un po’ particolare e potrebbe sembrare anche un po’ marginale. Devo
dire che nella svizzera italiana, dove sono cresciuto io, il blues è molto sentito: basta
guardare tutti i festival organizzati soprattutto nel periodo estivo, tra tutti, beh, Piazza Blues,
che ha avuto i più grandi nomi, negli anni passati, del blues, da B. B. King a Gary Moore,
insomma sono passati tutti da lì. Quindi qui al sud, in Ticino, è molto sentito.

Bene, ma il blues . . . tu hai suonato abbondantemente il blues negli Stati Uniti, hai avuto
un’ampia esperienza negli Stati Uniti: la differenza è molto marcata tra suonare il blues
in Europa e negli Stati Uniti?

Mah, c’è una differenza. Diciamo che rimane comunque una musica di nicchia, se si vuole
dire così. Rispetto al rock o al pop dove il mercato è molto più grosso e le cose vanno e
vengono molto più in fretta. In America fa proprio parte della cultura, secondo me, quindi a
me piace un po’ pensare che qui da noi il blues viene visto un po’ come un piatto esotico
mentre in America è il loro pane quotidiano, ecco. E questa è un po’ la differenza che si sent e
anche nel pubblico durante i concerti, insomma. L’esperienza che ho fatto, sì, è stata con
Terry Evans per tanti anni in diversi tour; ho avuto modo oltre tutto di suonare negli Stati
Uniti non solo in grandi situazioni ma anche proprio nei locali e ho visto un po’ tutte le
facce, insomma.

Si, questa è una cosa molto tipica, perchè questa cosa dei piccoli locali, come sono a
New Orleans o come sono a Memphis o a Austin, è una cosa abbastanza inusuale per
l’Europa.

Si, appunto, come dicevo, secondo me è sentita proprio come parte della cultura, quindi
andare nei locali a sentire blues fa proprio parte . . . insomma quando si esce al venerdì o
sabato sera si va nel bar del paesino, anche. Se si vuole, si ascolta il blues e si beve una birra,
insomma. E’ una cosa data un po’ più per scontata come tipo di musica. Nello stesso tempo è
sentita in un modo più spontaneo e meno da intenditori, come qui da noi bisogna essere un
po’ appassionati, insomma.

Tu hai lavorato con dei nomi grossissimi come Robben Ford, Larry Coryell: ci racconti
qualche cosa di qualcuno di questi? Non so: chi ti ha colpito di più in maniera favorevole
o in maniera sfavorevole? Le cose che ti hanno influenzato di più, che ti son sembrate più
strane, anche dal punto di vista umano?

Devo dire la verità: di tutti questi nomi quello con cui veramente ho lavorato e conosco
molto bene è Terry Evans: gli altri nomi che hai fatto sono stati . . . ho collaborato, tra
virgolette, quando abbiamo fatto l’album tributo a Hendrix, poi però ognuno ha registrato in
tempi e luoghi diversi, quindi a parte Robben Ford, che avuto modo di conoscere una volta
negli Stati Uniti, ma in un altro ambito, non li ho conosciuti personalmente. Quindi la scelta
cade comunque su Terry, che per me è una persona che stimo moltissimo sia dal lato
musicale che quello umano. E anche durante i lunghi periodi di tour, trascorsi insieme, sia in
America che in Europa, sono stati per me dei momenti di apprendimento e dei momenti che
non dimenticherò mai . . .

Noi invece abbiamo vissuto insieme questa esperienza stupenda del Light of Day: noi
siamo rimasto molto soddisfatti, molto colpiti, ci è piaciuta molto. Dimmi invece tu come
l’hai vista dall’altra parte del palcoscenico.

Beh, ti ringrazio, son contento che sia piaciuto. Con Willie anche lì è stata una cosa più
spontanea e imprevista di quello che si potrebbe pensare, infatti ci siamo conosciuti forse un
anno prima, proprio casualmente. Lui si è ritrovato a Milano a non poter partire con l’aereo< br />per tornare negli States e quindi è venuto a bazzicare in un locale dove io suonavo proprio
quella sera; ci siamo conosciuti, siamo rimasti in contatto e appunto a distanza di un anno o
più poi mi ha proposto tramite una conoscenza comune di partecipare a questa cosa a
Muggia: è stata proprio un’improvvisata, devo dir la verità. E anche molto particolare, molto
bella perchè ci si ritrovava sul palco ad essere diversi musicisti tutti nello stesso tempo sullo
stesso palco, ma musicisti che vengono da situazioni diverse, quindi non una band o l’artista
che fa il suo concerto ma tante persone diverse che mettono del loro per fare un concerto
unico: questa è una cosa secondo me particolare che mi ha colpito e mi ha fatto vivere con
particolare intensità, insomma, il concerto.

Io invece devo dire che personalmente ho un bellissimo ricordo del backstage, di
preparaz ione di quel concerto con te e Willie che stavate provando e c’era un interplay
veramente abbastanza inusuale: cioè pur girando con i gruppi non son cose che capitano
tutti i giorni. E’ stato fortemente emozionante.

Si, effettivamente questa è proprio, secondo me, la magia della musica; che si riescono a
creare dei momenti molti intimi, proprio improvvisando senza magari neanche conoscersi più
di tanto. E poi, va beh, Willie, per quello che lo conosco, è veramente una persona di cuore e
ci siamo trovati molto bene: è stata una bella serata.

Assolutamente, su questo non ci sono dubbi. Ma poi, ripeto, a parte noi – che siamo
particolarmente sconvolti e ci avrai già inquadrato – abbiamo anche avuto dei grossi
riscontri da parte del pubblico, di gente che magari non aveva mai saputo nulla di questi
prima: arrivata lì ed era tutto il tempo che saltava perchè è stata molto coinvolgente
questa cosa.

Cambiamo completamente genere: parliamo invece dei Deltachrome. Raccontaci
brevemente di come vi siete conosciuti. Poi mi dava anche l’impressione, ascoltando il
disco, che ci fosse una certa influenza di Campanella, che è il cantante, il frontman, che
lui fosse l’aspetto più hard rock e tu quello più blues; ma dicci un po’ tu com’è in realtà
la cosa.

Anche qua è . . . beh, diciamo . . . parto dal trio con Rocco Lombardi alla batteria e Gian
Andrea Costa al basso, che è una formula collaudata da molti anni; tanti anni che suoniamo
insieme. Ci son stati diversi cambiamenti, abbiamo avuto diversi cantanti, c’è stato un lungo
periodo dove il progetto era strumentale, comunque è tanti anni che collaboriamo insieme.
Franco Campanella, il cantante, effettivamente ci ha raggiunti praticamente durante la
lavorazione di Deltachrome, quindi è tutt’ora nuovo, anche se mi sembra che siamo
amalgamati abbastanza bene. Il suo background musicale chiaramente è molto diverso dal
nostro, soprattutto per quello che sono le radici, perchè ammetto anch’io che ascolto da
Elmore James fino a Zakk Wyld ai ZZ Top e i Flash. Quindi ho anch’io un mio cotè rock
anche abbastanza duro, se si vuole. Franco mi ha aiutato a sperimentare questi nuovi territori
che fanno comunque parte di me. E’ una collaborazione anche qua nata molto
spontaneamente; lui canta in un’altra band svizzera nella quale canta tutt’ora e casualmente,
insomma, ci siamo conosciuti e abbiamo voluto sperimentare questa miscela di blues e rock
quasi heavy in certi momenti.

Il vostro prossimo disco dal vivo dovrebbe uscire fra pochissimo: vuoi dirci qualche
cosa? Tu pensi che sarà già pronto per la prossima settimana? Ce ne porterai qualche
copia da poter comprare?

Beh, sicuramente, visto che è proprio uscito un paio di giorni fa: si tratta di un concerto che
abbiamo registrato in Polonia e che è stato appena pubblicato, quindi sarà sicuramente in
vendita al concerto a Trieste, anzi sarà il secondo concerto dove ufficialmente sarà in
vendita. Quindi un’anteprima. E’ un disco che . . . sono abbastanza soddisfatto, perchè
include un po’ tutto quello che abbiamo fatto fino adesso, dagli inizi, molto legati al blues.
Qualche pezzo preso da Deltachrome, quindi un po’ più heavy, un po’ più forte. E oltre tutto
anche un paio di cover particolari, sempre riviste con dobro e slide, chiaramente.

E quindi basilarmente lo spettacolo di Trieste conterrà una buona parte dei pezzi che
sono nel disco dal vivo.

Sicuramente si. Perchè noi dal vivo abbiamo sempre miscelato un po’ tutti i nostri periodi,
diciamo. Quindi pezzi proprio molto blues, presi dal primo disco; pezzi più rock presi da
Deltachrome. Chiaramente inseriamo sempre qualche cover e naturalmente non mancherà
neanche Hendrix che . . .

. . . guarda, stavo per chiedertelo . . .

Sicuramente facciamo sempre qualche pezzo di Hendrix; non manca mai nella scaletta dal
vivo: è un must.

Benissimo. Noi siamo molto elettrizzati all’idea di averti qui di nuovo, questa volta con
uno spazio un pochino più ampio, uno spazio tuo. Ti ringraziamo per l’intervista, ti
ringraziamo per il tempo che ci hai dedicato e noi ci vediamo il giorno 24 per il concerto
all’Etnoblog. Va bene?

Va bene. Io vi ringrazio a mia volta; mi ha fatto molto piacere e no n vedo l’ora di poter
venire con la mia band, insomma, a Trieste il 24.

Intervista a cura di Ruggero Prazio

03 LUGLIO: Glen Hansard

Cantautore, chitarrista, attore, voce e chitarra dei The Frames, fondatore insieme a Marketa Irglova, dei THE SWELL SEASON, vincitore del premio Oscar nel 2008 con ‘Falling Slowly’, miglior canzone originale tratta dal film ‘Once’, Glen Hansard torna in Italia per presentare All That Was East Is West Of Me Now, il nuovo album uscito il 20 ottobre, insieme ai brani più celebri del suo repertorio.

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Un grande show che propone i classici del rock ri-arrangiati per band e orchestra. Il tutto accompagnato da un incredibile supporto scenografico per far vivere agli spettatori un’esperienza unica, in cui il rock incontra il sinfonico, dove classico e moderno si fondono.

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